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Quando ci si permette di dare priorità ai “propri affari” tanto da rifiutare l’invito ad una festa a cui si è attesi? Non avviene, forse, quando si è convinti che un posto ci sarà comunque riservato, per quanto tardi si arrivi?
Nell’immagine del banchetto di nozze Gesù ci parla della comunione con Lui, con il Padre e con i fratelli, di cui potremo godere nel regno dei cieli ma che già possiamo anticipare nella vita di tutti i giorni e nella celebrazione eucaristica. Ma Gesù ci ricorda che si può anche essere trovati indegni di ricevere l’invito a questa comunione con Dio e, allo stesso modo, indegni di essere commensali. Destinatari della parabola di Gesù sono ancora i capi dei sacerdoti e i farisei, che si sentivano i “pochi chiamati”, gli “eletti” ben accetti a Dio per la loro osservanza formale della legge. Certi di entrare nel Regno, disprezzavano gli altri, pagani e peccatori, che ai loro occhi erano dei “non chiamati” da Dio. Gesù vuole raggiungere il loro cuore e la loro coscienza… ma anche la nostra, in quanto il loro stile di vita, i loro pensieri, possono essere anche i nostri!
Ma cosa significano per noi le parole di Gesù? Occorre anzitutto mettere in conto che anche a noi capiti di rifiutare l’invito a vivere la comunione con Dio e con i fratelli, o di pensare che per partecipare a questa festa basti un abito qualsiasi. Anche noi possiamo credere che l’essere cristiani non chiami molto in causa i nostri comportamenti concreti!
Siamo tra coloro che rifiutano l’invito quando diamo priorità ai nostri interessi più che agli appelli che possono venirci da Dio, tramite la sua Parola o i suoi servi (fratelli che ci fanno da “guida” o fratelli più “piccoli”): richieste di ascolto e cura, benevolenza e assenza di giudizio, spirito di servizio, disponibilità a fare o umiltà di lasciare spazio perché altri possano fare.
E come lasciarci interpellare dalla scena del commensale senza abito nuziale? L’Apocalisse ci fa sapere che “la veste di lino sono le opere giuste dei santi” (19,8). E’ questo l’abito che Dio vuole vederci indossare, rivelandoci un regno dei cieli aperto a tutti coloro che operano il bene, cristiani, credenti di altre religioni, non credenti. Nell’intransigenza del re vi è il volto di un Dio che dà valore alle opere buone più che a una fede che si accontenta dei riti! Questo è l’abito a cui Dio fa caso e che solo Lui sa scorgere, perfino nel segreto e nascondimento dei gesti più semplici.
Saremo tra gli eletti di cui Gesù parla, se ci “abitueremo” ogni giorno di più a vestirci dell’abito delle opere buone, senza per questo giudicare l’abito dei nostri fratelli… che non ci è dato di vedere! Saremo così tra quei servi che possono collaborare oggi a sconfiggere il male, non con la violenza o il giudizio, ma con i gesti di bene che ci è donato di compiere.(Sorella Cristina F. – Discepole del Vangelo)
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Un re che chiama
Il Dio che Gesù è venuto a rivelare è un re che invita a nozze.
Non costringe, non obbliga, non intima. Propone.
E non propone solo di andare a lavorare per cambiare il mondo, no.
Propone di partecipare ad una bella festa, ad un banchetto elegante, ad una cena che lungamente abbiamo sognato.
Così è Dio. Non quello piccino della nostra testa, quello severo delle nostre paure, quello intransigente delle nostre ristrette visioni inutilmente moralistiche.
Un Dio che fa festa. Un Dio che ama la compagnia, che la cerca, che mi invita.
Invita me, perché non è egoista come sappiamo essere noi, non narcisista e diffidente.
Dio è uno spettacolo di luce e di vita e mi chiede, mi propone nell’assoluta libertà, di partecipare alla sua vita ma anche di condividere la sua gioia.
E i servi vanno, invitano, insistono.
Noi servi, noi discepoli che già abbiamo conosciuto l’immensa bellezza di Dio.
Come sono belli sui monti piedi di chi parla di Dio!
Solo che. Ahia
Grandioso, direte voi.
In teoria. In pratica Dio si riceve un solenne e condiviso: no, grazie.
Abbiamo delle cose da fare. Vero, certo. Cose urgenti, necessarie, importanti.
Ma sempre e solo delle cose. Materia, impegno, lavoro, sudore.
Cose.
Che riempiono ogni spazio, che occupano la mente, che spengono l’anima e il desiderio.
Peggio: che la uccidono.
Non sono malvagi coloro che rifiutano.
Sono solo troppo impegnati per diventare felici. Si illudono di trovare la felicità dopo avere finito le cose da fare. Come se la felicità potesse aspettare.
Eppure basta poco. Accogliere l’invito, andare.
Vedere quanta gioia, verità, bellezza, abitano in Dio, e come la nostra vita, comunque sia, possa fiorire.
Cosa abbiamo di meglio da fare, oggi, dell’essere felici?
Accampiamo scuse.
Problemi, dolore, a volte addirittura attribuito a Dio, ostacoli.
Macché: se non siamo felici oggi, non lo saremo mai.
L’abito
Una sola cosa serve: l’abito. Un abito adatto, confacente. Assurdo, all’apparenza: al rifiuto degli invitati il re spinge ad entrare cattivi e buoni, medicanti e poveri. Come pretendere da loro un abito nuziale?
Matteo, riprendendo questa parabola, pensa a quanti, in Israele, non hanno accolto l’invito, ora rivolto ai pagani.
Noi, oggi, sappiamo che l’invito di Dio è rivolto a tutti, anche a chi non ne è degno, anche ai peccatori.
Nessuna selezione di bravi cristiani per far parte della festa.
Ma l’abito sì. Certo.
La consapevolezza del dono ricevuto, il desiderio, lo stupore, sì, certo. Quello è necessario. Il re è un padre, è buono, non è un bonaccione, un inutile Babbo Natale.
Ci ama seriamente, con gioia, ma non si fa prendere in giro.
Possiamo drammaticamente rifiutare la gioia. Ma anche fingere e non essere disposti a crescere, a fiorire, a convertirci.
La conseguenza, allora, sarà quella di essere per sempre legati alla nostra minuscola visione della vita ed abitare nelle tenebre.
Prepariamoci alla festa, oggi. E, come servi, diciamo a tutti che Dio ci invita. Il desiderio e la fede sincera siano l’abito da indossare.
Cosa abbiamo di meglio da fare oggi che non essere felici?
(Paolo Curtaz)